1. Con la sentenza in oggetto la Corte Edu torna nuovamente a condannare l’Italia nel giro di pochi mesi – dopo i casi Morabito c. Italia (application no. 4953/22) e Niort c. Italia (application no. 4217/23) – per violazione dell’art. 3 Conv. in conseguenza dell’inadeguatezza delle cure e dei trattamenti medici dispensati in carcere.
Il caso sottoposto ai giudici di Strasburgo riguardava la dedotta incompatibilità con il regime carcerario delle condizioni di salute del ricorrente, che pur non versando in pericolo di vita, lamentava la inadeguatezza dei trattamenti terapeutici e riabilitativi che erano stati apprestati nei suoi riguardi all’interno degli istituti penitenziari dove per avvenuto a essere recluso. Il ricorrente, in particolare, è stato definitivamente condannato, nell’ambito di sei procedimenti, a una pena complessiva di di 27 anni, 4 mesi e 17 giorni di reclusione per reati di stampo mafioso. Dal punto di vista medico, presenta un quadro clinico gravemente compromesso, essendo affetto da emiplegia sinistra e da altre patologie che determinano un marcato deficit della deambulazione, rendendolo non autosufficiente e costringendolo all’uso permanente della sedia a rotelle.
Nel caso di specie, il ricorrente — condannato ad una pena di 27 anni, 4 mesi e 17 giorni di reclusione per reati di stampo mafioso — presenta un quadro clinico gravemente compromesso, essendo affetto da emiplegia sinistra e da altre patologie che determinano un marcato deficit della deambulazione, rendendolo non autosufficiente e costringendolo all’uso permanente della sedia a rotelle.
Nel corso della lunga detenzione – iniziata nel 2014 e ancora in corso – l’autorità giudiziaria italiana ha avuto più volte occasione, in effetti, di valutare la questione della compatibilità tra lo stato di salute del ricorrente e la permanenza in carcere. Già nel 2015 il tribunale di Palmi, invero, dispose il suo trasferimento immediato nella casa di reclusione di Milano-Opera, dove fu collocato in una cella per persone disabili all’interno del Servizio Assistenza intensiva e i medici “indiquèrent immédiatement qu’il nécessitait une assistance pour tout acte quotidien” (§ 8). Alcuni anni dopo, periti appositamente nominati dalla Corte di appello di Reggio Calabria, nell’ambito di uno dei procedimenti a suo carico, ebbero a concludere nel senso “son état de santé était compatible avec la détention”, a condizione, però, che “il soit constamment assisté par le personnel et qu’un parcours de réhabilitation et de kinésithérapie soit assuré ”. Gli stessi non mancarono, peraltro, di evidenziare come “en cas d’impossibilité de trouver un pénitencier répondant à telles exigences, la meilleure alternative pour préserver la santé physique du requérant et lui assurer les soins nécessaires consistait à le transférer dans un établissement de soins disposant de services d’assistance et de rééducation” ( § 11)
D’altra parte, il ricorrente ha avuto modo, “à plusieurs reprises”, di avanzare istanze per la concessione della detenzione domiciliare tanto davanti all’organo monocratico che al tribunale di sorveglianza, ma sono state tutte rigettate. Da ultimo, la Corte di cassazione aveva ribadito, con una decisione del 14 marzo 2023, che “l’état de santé du requérant était compatible avec la détention”, considerando, fra l’altro, come “expertises sanitaires faisant état d’une assistance médicale suffisante pour lui assurer un traitement rapide de ses pathologies” e rilevando – con riguardo alle frequenti cadute in cui era più volte incorso – che “elles étaient liées à la volonté du requérant de se déplacer de façon autonome” (§ 16).
2. Nel procedere all’esame del ricorso, in punto di diritto, i giudici di Strasburgo evocano, anzitutto, i principi generali che in questa materia sono compendiati nel caso Rooman v. Belgium, no. 18052/11, §§ 141-148, 31; mentre, per quanto riguarda i ricorrenti “en situation de handicap”, richiamano le decisioni Zarzycki v. Poland, no. 15351/03, §§ 102-103; Helhal v. France, no. 10401/12, §§ 49-52; nonché Potoroc v. Romania, no. 37772/17, §§ 61-65 (§ 20). Preso atto, poi, che le autorità giudiziarie del nostro Paese hanno sistematicamente negato al ricorrente la concessione della detenzione domiciliare per ragioni di salute, in considerazione del fatto che i periti sono sempre stati concordi nell’escludere l’incompatibilità con l’ambiente carcerario, dove, per l’appunto, avrebbero ben potuto essere approntate le cure necessarie, l’inevitabile conclusione è che, “dans ces conditions, la Cour ne peut pas conclure que le maintien en détention du requérant est incompatible en soi avec l’article 3 de la Convention” (§ 21).
Ciò puntualizzato, rimane il fatto che il ricorrente è affetto da una patologia invalidante, che necessita di un “suivi médical régulier’, in particolare mediante il ricorso a “une thérapie kinésithérapeutique et de réhabilitation”. Dunque, si tratta per la Corte di stabilire se, nel caso di specie, le nostre autorità concretamente “ont satisfait à leur obligation de protéger l’intégrité physique du requérant par l’administration de soins appropriés “ (§ 22). Da questo punto di vista, il Governo italiano ha ribadito come il detenuto abbia potuto beneficiare, fin dalla fasi iniziali della sua reclusione, di un servizio di follow-up adeguato e sufficiente, per quanto riguarda, fra l’altro, il trattamento di chinesiterapia. E, allo scopo, si è premurato di produrre numerose relazioni sanitarie da cui si ricava la presa in carico del ricorrente da parte dei servizi medici del carcere. Ma, tutto ciò ha riguardato – osserva la Corte – le patologie di altra natura, di cui pure è affetto il ricorrente, mentre il nostro Governo “ne fournit aucun document démontrant que le requérant aurait eu accès aux soins kinésithérapeutiques et de réhabilitation de manière constante jusqu’à la pandémie Covid-19, ni qu’il aurait eu l’occasion de reprendre de tels soins, du moins jusqu’au 12 février 2024, date du dépôt des observations” (§ 24). Dagli atti prodotti risulta, invero, che, durante la permanenza presso il servizio di terapia intensiva del carcere di Opera, si è dato effettivamente corso ad adeguati cicli di chinesiterapia. Ma, nessuna prova è stata prodotta in grado di attestare la ripresa del trattamento nel periodo successivo, nonostante le reiterate sollecitazioni in tal senso, che provenivano dai periti nominati dall’autorità giudiziaria e dai medici del carcere. Dunque, stante “l’absence d’allégations ultérieures ou de preuves supplémentaires soumises par le Gouvernement ”, la Corte “ n’est pas en mesure de conclure que le requérant a pu bénéficier de manière régulière des soins dont il a besoin” (§ 25).
L’inevitabile conclusione cui pervengono i giudici di Strasburgo è che, nel caso in esame, “les autorités ont failli à leur obligation d’assurer au requérant le traitement médical adapté à sa pathologie” e, dunque, “le traitement que le requérant a subi de ce fait a excédé le niveau inévitable de souffrance inhérent à la détention et a constitué un <<traitement inhumain et dégradant>> au sens de l’article 3 de la Convention” (§ 26).

